a cura di Rodolfo Zucco [Mondadori, Milano 2006]
L’opera poetica: questo è il titolo del «Meridiano» Mondadori dedicato a Giovanni Raboni, per le cure di Rodolfo Zucco. Ma il paratesto è felicemente ingannevole: il volume non comprende solo la produzione in senso stretto poetica, poiché vi è spazio per due raccolte di prose critiche (oltre al capitale Poesia degli anni sessanta, uscito nel 1976, Devozioni perverse, del 1994) e per uno di prose narrative (La fossa di Cherubino, 1980). Notevole poi la presenza di una traduzione teatrale, peraltro in versi, vale a dire l’Antigone di Sofocle, pubblicata nel 2000 ma solo come programma di sala.
Una scelta, insomma, a un tempo inclusiva e selettiva, della cui genesi Zucco rende conto in una Nota all’edizione, informandoci nel dettaglio delle intenzioni dell’autore: che per esempio non voleva riprendere le poesie per bambini di Un gatto più un gatto (1991), appunto escluse, e viceversa avrebbe desiderato inserire il cosiddetto «volume Cortellessa», cioè il libro di critica ahimè uscito postumo per Garzanti nel 2005, La poesia che si fa. E tutto ciò non è senza conseguenze, com’è ovvio.
Certo, in questi casi si ha l’impressione che il punto di vista dell’autore, la sua tarda poetica, faccia premio sulle serene – ma quando mai davvero lo sono? – istanze della critica, sulle equilibrate ricapitolazioni che dovrebbero presiedere a una collana di “classici”. Insieme, e soprattutto, a essere messa in discussione e anzi revocata in dubbio è la distinzione stessa tra poesia e discorso sulla poesia: e in modo direi tanto più percepibile in quanto la carriera intellettuale di Raboni non ha mai concesso nulla alle sovrapposizioni e (con)fusioni tipiche di una tradizione ben novecentesca, che da certi vociani radicali passa attraverso l’ermetismo e giunge alla non-critica, cioè alla critica estatica, della “parola innamorata” e dintorni.
È sin troppo evidente: l’effetto di senso, qui, è diametralmente opposto; e la poesia-poesia appare, in maniera neanche troppo paradossale, come il frutto migliore di una lunga e lucidissima riflessione critica, che si concreta anche in un assiduo lavoro di traduzione e insieme si radica nella consuetudine con la parola recitata (e “teatrali”, del resto, sono le più antiche poesie rese pubbliche da Raboni: Gesta romanorum, datato 1949-1954). Un Raboni, in definitiva, molto “fortiniano”, come è forse giusto che sia, anche in considerazione di una serie di dichiarazioni ammirative nei confronti dell’amico che si erano fatte sempre più frequenti dopo il 1994.
Eppure. Lo scarto, quasi l’urlo polemico delle poesie antiberlusconiane (gli Ultimi versi di cui tanto si è parlato nella primavera 2006), incrina per un attimo il gioco di specchi allegorico che ha nutrito questa poesia, in particolare negli ultimi anni. E una certa milanesità (quella di Rebora, per intenderci), tutta dentro la storia e priva di difese dialettiche, torna a fare udire le proprie (certo ottime) ragioni. Magari costringendo il critico a rivedere con occhi nuovi il Raboni anni Sessanta e Settanta, la cui attenzione alla politica, forse, è stata nel tempo un po’ rimossa.
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